Ricordare l’esperienza trascorsa per una decina di giorni a luglio, in Palestina e in Israele, con giovani e adulti guidati dall’Azione cattolica di Milano, è far affiorare sentimenti, pensieri ed emozioni che accompagnano sempre vacanze di condivisione e di conoscenza in luoghi particolari , come in questo caso, intessuti di storia antica e recente, dove la vita delle persone è attraversata dalla complessità del quotidiano.
Raccolgo i miei ricordi intorno a questi aspetti: l’attività di animazione con i bambini a Betlemme presso le Suore Francescane; la realtà del muro di separazione tra Israele e i Territori palestinesi; gli incontri con alcune persone impegnate nella società palestinese; la bellezza di ripercorrere i luoghi della fede cristiana e l’intrecciarsi di altre fedi e culture.
I giochi e le attività di animazione, che quasi ogni giorno proponiamo, arricchiscono le mattinate di circa quaranta bambini e ragazzi di Betlemme , accompagnati dai loro animatori scout che ci facilitano nella comunicazione in lingua araba e subito ci sentiamo accolti dalla loro simpatia e vitalità. Amano giocare e divertirsi, gareggiando come tutti i ragazzi : colpisce però l’attenzione dei più grandi verso i più piccoli, la loro capacità di stare insieme e di consolare chi ha bisogno.
Siamo all’interno del cortile del convento delle Suore francescane che ci ospitano e che, con la loro presenza e la gestione di una scuola dell’infanzia aperta a bimbi di famiglie cristiane e musulmane, testimoniano lo spirito di fratellanza che le anima.
Abitano nel campo profughi di Aida, un quartiere abitato dai palestinesi che nel 1948, alla nascita dello stato di Israele, furono costretti ad abbandonare terre e case e ancor oggi, con i loro figli e nipoti nutrono il desiderio di un ritorno. Sui muri delle abitazioni e sul “muro” che a distanza di pochi metri ostruisce l’orizzonte verso Gerusalemme è frequente il disegno di una chiave, simbolo della proprietà di una casa strappata, seguito dalla scritta in arabo e in inglese ” Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia, senza il ritorno”.
All’esterno del convento, incontriamo, a volte, giovani adulti dallo sguardo pensoso…solo un ragazzo, che offre bibite al tamarindo, sorride parlandoti in inglese, per darti il benvenuto nella sua terra, la Palestina. Tu gli rispondi e passa un raggio di comprensione in questo paese , così offeso dalle scelte politiche di Israele.
Per entrare e uscire da Betlemme, infatti, dal 2004 si deve passare attraverso un checkpoint che apre un varco nel muro che lambisce la città : per noi turisti, è sufficiente il controllo dei passaporti, ma per chi vi risiede e deve uscire per lavorare a Gerusalemme, la vita diventa impossibile, sia per le attese, le code ,le umiliazioni che vengono spesso causate dai militari israeliani.
Con il trascorrere dei giorni , il muro che incontriamo non appena ci affacciamo al cancello, diventa parte viva del paesaggio, una presenza costante, che ti accompagna lungo la strada che porta alla via principale, che poi si intrufola tra alcune case , con un movimento di svolta inatteso, per separare e creare confini …
Il muro appare come un peso insostenibile, con i suoi manifesti di denuncia ,di rinnegamento dei diritti umani , con i suoi murales dipinti anche da artisti provenienti da altre nazioni che esprimono con l’immediatezza dell’immagine il diritto alla vita ,alla pace, alla terra per il popolo palestinese.
Lo ritrovi nelle domande dei bambini più piccoli che vorrebbero sapere che cosa c’è dall’altra parte, affiora nei disegni liberi di due ragazzini ,Wadi e Christian, che esprimono il loro vissuto, mostrando lo sguardo serio di chi ha già ricevuto risposte …
Penso all’incontro con il sindaco di Betlemme, Vera Baboun, una donna forte e coraggiosa, cristiana, che ci comunica con intensità le sue speranze e le sue preoccupazioni per i giovani della sua terra:
“La sfida per i giovani in Palestina e a Betlemme è duplice: è una sfida che implica la ricerca di un futuro, ma allo stesso tempo la necessità di sfidare il presente. I giovani in Palestina e a Betlemme vivono un presente di anormalità e questo significa grandi sforzi dei loro genitori, della comunità cristiana e di chi ha responsabilità istituzionali per aiutare i giovani a convivere, ma anche a sfidare l’anormalità in cui vivono. La prima cosa a cui penso è il muro: che cosa significa un muro? Un muro in mezzo alla città è una pura e semplice anormalità, da cui discende la prima sfida: dare ai nostri bambini e giovani una visione perché loro possano decidere di restare in questa terra, di rimanere per essere veramente la finestra su un futuro di salute, di speranza e di ricchezza. Perché vivere e rimanere all’interno di questo muro? Ciò che temo davvero, ciò che mi terrorizza, è il fatto che questo muro esterno si interiorizzi nelle persone.
(…)Noi non stiamo combattendo Israele adesso, loro non ci stanno combattendo, ma ci stanno occupando. Io cerco l’obbiettività perché sono perseguitata, come la mia nazione. Non dovete metterci sullo stesso piano, noi siamo gli oppressi e loro sono gli oppressori. Mi chiedete quale sia la luce che mi guida? Io rispondo: la giustizia, la speranza. Io sono una figlia di Betlemme, sono la figlia di un messaggio di pace che giorno per giorno io respiro in questa aria perché vivo in questa città. Sono una donna. Sono una donna credente. Sono una donna che crede nel diritto della mia nazione di vivere con una dignità umana: se non viviamo con dignità, la mia luce è la fede nella giustizia. Perché siamo stati creati? Almeno, dico almeno, per vivere nella giustizia. E noi non viviamo la giustizia: io mi sento una combattente per la giustizia e una costruttrice di pace”.
Rimaniamo colpiti per la sua accorata testimonianza, attraverso la quale rilancia la necessità di un vivo impegno perché, “se il messaggio di pace che Betlemme ha portato al mondo non viene rivitalizzato, questa città potrebbe perdere la sua luce”. E aggiunge :” Io sono Palestinese , ma anche voi siete fedeli del messaggio di Betlemme. Quale è il vostro ruolo? “
Ripercorrere, allora, in questi pochi di giorni , le strade della Palestina e conoscere i luoghi dove Gesù è passato, luoghi che hanno visto il nascere e il diffondersi della fede cristiana, diventa un richiamo a ridestarsi, per rinnovare l’impegno e il coraggio almeno di testimoniare il diritto ad una vita più dignitosa per chi è oppresso, e continua a resistere ,in questa terra così ricca di giovani , di energie che desiderano esprimersi e realizzarsi.
“Se i giovani –conclude il sindaco in una dedica che ci dona su un libro – sono la finestra sul domani , noi dobbiamo facilitare la creazione uno spazio di speranza che permetta loro di costruire la pace, di cui il nostro mondo ha disperatamente bisogno”.
Saliamo poi a Gerusalemme, la città santa per ebrei, cristiani e musulmani, che ci appare nella sua bellezza e nelle sue contraddizioni, nelle sue fedi e nelle sue tensioni…eppure, attraversare la Città Vecchia , respirare il profumo delle spezie ed essere immersi nei colori del suk, nella luce che si riverbera sulla pietra bianca e nella storia che la conduce , ti permette di sentirti parte di un’ immensa umanità in cammino, nel faticoso anelito alla pace.
Ricordo, diversi anni fa, l’incontro con il Card. Martini, in questa terra da lui profondamente amata, e il suo invito intenso e coraggioso a lavorare per la pace e la giustizia con tutti, con uno sguardo sempre aperto e attento agli ultimi, pronti a ” stare nel mezzo “, ad “ intercedere per l’altro” favorendo gesti di riconciliazione ,per riconoscere all’altro il diritto di esistere.
Sul muro di fronte al convento francescano di Betlemme, campeggia l’immagine di due giovani che si avvicinano guardandosi negli occhi, mentre le parole sottostanti “Soft minds good in hard situation ” evocano l’importanza di avere menti nonviolente per sostenere situazioni difficili e, nel contempo, la strada da percorrere per trasformare i conflitti e giungere ad una nuova qualità della vita.
Ed è significativo l’incontro con Maria Luisa, attivista di “Vento di Terra”(www.ventoditerra.org), una ONG che opera nelle aree della West Bank e a Gaza, promuovendo l’educazione scolastica dei bambini e le cooperative artigianali di sandali, ceramiche, gioielli etnici all’interno delle comunità beduine sparse in particolar modo nel deserto, tra Gerusalemme e Gerico.
Ascoltandola, comprendiamo come sia concretamente possibile, anche in zone dove la vita sociale ed economica è instabile, valorizzare la realtà in cui si vive , stimolando formazione, creatività e solidarietà nelle comunità e garantire un futuro per le nuove generazioni.
L’ultima “tappa” del nostro viaggio, prima di rientrare in Italia, assume un aspetto particolare…Una strada interrotta e una successiva deviazione non ci consentono di rintracciare Emmaus, luogo narrato da vangeli, a circa undici chilometri da Gerusalemme.
Emmaus testimonia l’ incontro con il Risorto da parte di due discepoli impauriti e senza speranze, i quali non si accorgono di averlo come compagno di viaggio, ma che a tavola,” lo riconobbero allo spezzare del pane”, il segno supremo della condivisione.
Ed è proprio questo il bello, non trovare fisicamente questa località, non cercarla in segni archeologici, affinchè Emmaus diventi per ciascuno il luogo interiore dell’incontro che conduce a nuove partenze, più consapevoli di quanto, lungo il percorso, si è ricevuto.